Non solo Inglese: perché è un affare difendere l’ italiano

Sidney Goodman - Crowd Scene

Sidney Goodman – Crowd Scene – immagine tratta da http://www.artgalleryabc.com/

Il valore di una lingua non è solo culturale, è anche un valore economico. Per questo, le frequenti rivendicazioni rivolte ai governi nazionali e all’ Unione Europea sull’ argomento sono tutt’ altro che richieste ideali. Perché l’ oligarchia linguistica che di fatto, con la triade inglese-tedesco-francese, è già instaurata in Europa crea discriminazioni che hanno effetti pratici non da poco sui Paesi svantaggiati. Specie se si pensa che una lingua può servire, oltre che per la comunicazione personale e privata (le vacanze, le relazioni di amicizia, la lettura o la visione di un film), anche per proporsi sul mercato del lavoro. Il primo costo economico indiscutibile che si può associare a una lingua riguarda le spese che comporta per il singolo e per lo Stato, in denaro e in tempo, il suo apprendimento. Senza trascurare il fatto che spesso la conoscenza di uno o più idiomi stranieri viene premiata dalle aziende con un incremento di salario (è dimostrato che negli Stati Uniti gli ispanici guadagnano meno degli anglofoni). Ci sono poi costi che riguardano, per una collettività minoritaria, la salvaguardia della propria lingua: si pensi, per esempio, a quanto sono disposti a pagare, in tasse, i gallesi o i catalani o i bretoni o i sardi o i friulani, perché le loro parlate non spariscano dall’ amministrazione, dai bandi, dalle leggi, dalla segnaletica stradale anche solo per ragioni simboliche e identitarie.

Ci sono minoranze linguistiche più fortunate: il maltese, l’ unico dialetto arabo ad essere lingua ufficiale, è riconosciuto dall’ Unione Europea, così come l’ irlandese (dal 2007). Le asimmetrie, solitamente sottovalutate, nella gestione della diversità linguistica in ambito comunitario generano dunque privilegi e svantaggi, ricavi e costi. Ma c’ è, per fortuna, chi si batte per un mondo linguisticamente più giusto e per compensare gli squilibri culturali, politici ed economici che derivano dalle scelte pubbliche in questo ambito. Tra i maestri dell’ economia delle lingue, François Grin, direttore dell’ Osservatorio Economia-Lingue-Formazione di Ginevra, ha studiato i pregi del multilinguismo nell’ insegnamento e nelle organizzazioni internazionali, sfatando l’ idea diffusa che il monolinguismo (solo inglese), oltre a semplificare le cose, contribuisca a un risparmio. Grin sostiene la necessità di adottare «sistemi complessi di gestione multilinguistica»: in realtà sono i contesti a determinare se e quando sia meglio utilizzare una, due, tre, quattro o più lingue: la questione dei brevetti commerciali, come si vedrà, pone problemi diversi rispetto alle discussioni nelle riunioni amministrative interne della Ue o agli annunci del traffico aereo. Alla scuola di Grin appartiene Michele Gazzola, ricercatore a Ginevra e ora anche alla Humboldt Universität di Berlino. A lui si devono diversi studi di carattere generale che affrontano la «pianificazione linguistica» e altri che si soffermano su argomenti specifici, dall’ istruzione alla ricerca e all’ innovazione, sempre con l’ obiettivo di inseguire quella equità comunicativa che è anche equità economica. Sta di fatto che la prevalenza dell’ inglese in Europa, come fosse una lingua franca, se politicamente è una soluzione comoda finisce per produrre già in sé un indubbio vantaggio per il Regno Unito e l’ Irlanda: è stato calcolato che nel 2005 la somma dei guadagni direttamente legati all’ insegnamento dell’ inglese, uniti ai risparmi sull’ apprendimento delle lingue straniere e ai risparmi di traduzione equivaleva a circa 10 miliardi di euro l’ anno, che diventavano 17 miliardi tenendo conto dell’ effetto moltiplicativo degli investimenti di questi risparmi per altri scopi. Ed erano calcoli prudenti. Il monopolio linguistico comporta poi, per gli anglofoni nativi, diversi benefici simbolici (non solo morali o psicologici) come la possibilità di usare la propria lingua materna in tutte le circostanze, formali o informali, di dibattito o di conflitto: siano esse riunioni, incontri, congressi scientifici. Ciò porta a ritenere lo scenario «solo inglese», da molti auspicato in ambito comunitario, come il più iniquo di tutti. Si realizzerebbe un equilibrio quasi perfetto con l’ uso dell’ esperanto, la lingua artificiale ideata a fine Ottocento dall’ oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, in quanto porrebbe tutti allo stesso livello di partenza: ma è uno scenario che, pur implicando un risparmio globale di 25 miliardi per i Paesi della Ue, incontra parecchie resistenze e difficoltà di coordinamento internazionale nella formazione. Ma fermiamoci all’ insegnamento scolastico. In Italia il cosiddetto «inglese potenziato» (la possibilità di aumentare a cinque le tre ore obbligatorie di inglese nelle scuole medie) non è decollato, benché sia stato previsto dal Ministero. In realtà, il provvedimento porterebbe a uno scenario «solo inglese» trascurando gli eventuali benefici di cui godrebbe uno studente che conosca una seconda lingua. Persino la Svezia, che aveva sperimentato una soluzione del genere, ci ha ripensato ritenendola dannosa per il futuro del Paese. La domanda preliminare, per quanto riguarda l’ Italia è questa: siamo sicuri che l’ egemonia dell’ inglese come unica lingua straniera di insegnamento in quanto lingua di comunicazione internazionale sia una scelta efficace (la seconda, anche se raccomandata, è di fatto marginale)? I primi Paesi di destinazione delle esportazioni italiane, fa notare Gazzola, sono Germania e Francia, seguiti da Stati Uniti e Spagna: dunque, perché puntare solo sull’ inglese? Non è meglio per i tedeschi avere interlocutori commerciali capaci di parlare e vendere in tedesco e per i francesi avere soci che conoscano il francese? «Se la realtà economica è poliglotta – afferma Gazzola – è giusto adottare una politica scolastica focalizzata su un’ unica lingua»? Conclusione: sarebbe auspicabile un’ educazione plurilingue «a geometria variabile». Si torna ai «sistemi complessi» di cui parla Grin. Già, ma i costi? Si calcola che una gestione multilinguistica nelle istituzioni europee costerebbe a ogni cittadino una tassa di non più di tre euro all’ anno per spese di traduzione e interpretariato. E considerato l’ euroscetticismo diffuso, non sarebbe male, con un sacrificio tanto esiguo anche in tempi di crisi, riuscire a ridurre le difficoltà di partecipazione, rendendo più accessibili sul piano linguistico i servizi e i canali di informazione (per esempio con pagine web disponibili nei diversi idiomi): la politica non può trascurare l’ aspetto psicologico dei suoi cittadini. Annullare il più possibile la distanza, posta dal filtro linguistico, tra istituzioni e comunità dovrebbe essere un impegno primario. Il discorso sulla scuola secondaria si potrebbe estendere facilmente anche all’ università, dove peraltro le cose si complicano. Il governo italiano sembra appoggiare senza dubbi l’ introduzione di corsi in lingua straniera nelle università sin dalla laurea triennale: la tendenza prevalente è quella dell’ «anglificazione» dei percorsi di studi, favorita dal fatto che nelle classifiche mondiali più in voga il numero di studenti stranieri iscritti viene considerato arbitrariamente un indicatore di qualità delle università. Il Politecnico di Torino, nell’ anno accademico 2007-2008, ha sostituito alcuni corsi di laurea triennale in italiano con equivalenti corsi in inglese, rendendo gratuita per gli studenti italiani l’ iscrizione al primo anno per le lauree in inglese e scoraggiando così l’ apprendimento in lingua italiana in un istituto in cui per il 70 per cento dei neolaureati il mercato di riferimento è piemontese. Dunque, la parola d’ ordine degli atenei è: internazionalizzare il più possibile. E cosa c’ è di meglio, per attirare studenti dall’ estero, che moltiplicare i corsi di laurea in inglese? I vantaggi di questa prospettiva non devono oscurare alcune ragionevoli obiezioni: in primo luogo il rischio di erigere discutibili barriere linguistiche nell’ accesso agli studi superiori per una parte di studenti italofoni, con relativi costi aggiuntivi (trasferimenti o corsi di aggiornamento); in secondo luogo la constatazione che la conoscenza dell’ inglese (e in genere delle lingue straniere) nel mercato del lavoro italiano non è di fatto particolarmente richiesta. Una ricerca realizzata dal Censis e dal ministero del Lavoro nel 2006 dimostrava che solo una minoranza delle imprese italiane, il 35 per cento, fa uso di lingue straniere in ambito lavorativo. Tornando all’ università, andrebbe semmai valutato se la crescente anglofonia accademica non comporti gravi guasti nella trasmissione del sapere. Specie se questo fenomeno non riguarda soltanto le discipline economico-aziendali o tecnico-scientifiche ma anche quelle umanistiche. Bisognerà chiedersi poi se tutto ciò non imponga, in definitiva, un impoverimento della competenza nella lingua madre, che dovrebbe essere pur sempre centrale per le sue implicazioni cognitive. E ancora, a proposito di internazionalizzazione: se uno studente greco in Italia studia ingegneria in inglese, gli si preclude la possibilità di acquisire il linguaggio scientifico italiano, che resta un fattore indispensabile per lavorare efficacemente sul territorio nazionale, oltre che un valore aggiunto nel mercato europeo rispetto ai tanti che conoscono solo l’ inglese. Certe scelte tecnocratiche con una parvenza di modernità esterofila rivelano soltanto un atteggiamento provinciale di sottomissione psicologica. È un’ inclinazione tipicamente italiana. Qualche mese fa su questo giornale, Ernesto Galli della Loggia ha denunciato i nuovi criteri di valutazione per i candidati ai concorsi universitari: si stabilisce che le riviste cosiddette internazionali godono di una valutazione maggiore rispetto alle riviste cosiddette nazionali. Idem per gli studi in volume. Il che, oltre a relegare d’ ufficio in serie B le pubblicazioni e gli editori italiani, sancisce la maggiore dignità scientifica della lingua inglese. Eppure non di rado siamo noi i migliori. Prendiamo l’ ambito dell’ invenzione. Da qualche tempo si discute del brevetto valido per tutti i 27 Paesi dell’ Unione. Quali lingue vanno adottate nelle procedure di richiesta? La scelta avrà un impatto asimmetrico sui costi sostenuti dalle imprese incidendo sulla competitività. Oggi se un’ azienda tedesca vuole convalidare il proprio brevetto in Ungheria, Italia, Spagna, Portogallo e Romania, deve tradurre integralmente il testo nelle cinque lingue ufficiali di questi Paesi: per un costo di quasi 8.900 euro. Qualora la richiesta passasse da cinque a tutti i 27 Stati europei, la cifra salirebbe a quasi 30 mila euro. L’ adozione di norme meno dispersive e più semplici comporterebbe indubbiamente notevoli risparmi, ma appunto: con quali criteri? Anche qui le opzioni prevalenti sono in sostanza due: il sistema «solo inglese» o la solita scelta limitata a francese, tedesco e inglese. Con risultati di vistoso squilibrio. Che cosa significa per un’ azienda italiana? Evitando di illustrare i vari e complessi passaggi, la conclusione è che nel caso di un regime trilingue le spese di traduzione fanno aumentare del 28 per cento il costo della procedura rispetto alle imprese di Francia, Germania e Regno Unito. Sorprendentemente il divario fra un’ impresa italiana e una inglese salirebbe addirittura al 30 per cento qualora l’ inglese fosse l’ unica lingua di procedura. Viceversa, un regime a cinque lingue (cioè con italiano e spagnolo in aggiunta), per esempio, diminuirebbe i costi complessivi. A dimostrazione che anche sul piano economico, oltre che culturale, l’ apertura è sempre meglio. Per ovviare a questi scompensi, non si potrebbe neanche ricorrere, come auspicato dalla Commissione, ai sistemi di traduzione automatica, poiché sono ancora pochissimo affidabili: quello consigliato si chiama Pluto (acronimo di Patent Language Translations Online ) e richiede cinque anni per essere perfezionato. Si tratta di aspettare. Intanto, fermo restando che i paesi germanofoni e francofoni vantano oggi la leadership dei brevetti rilasciati a imprese europee (con il 50 e il 17 per cento), negli ultimi anni l’ Italia (7,5 per cento) e l’ Olanda (7,1) hanno superato i paesi europei di lingua inglese (6,8). Come inventori ci facciamo valere. Sarebbe bene cominciare a farsi valere con coraggio anche sul piano culturale e linguistico, cioè economico.

Di Stefano Paolo

Pagina 032/033 (6 novembre 2011) – Corriere della Sera
http://archiviostorico.corriere.it/2011/novembre/06/Non_solo_Inglese_Perche_affare_co_9_111106002.shtml

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